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L’EQUILIBRIO DELL’INCERTEZZA, Cristina Di Silvio

Trump, Xi e la silenziosa frattura dell’ordine mondiale

Cristina Di Silvio

Abstract: L’incontro imminente tra Donald Trump e Xi Jinping non rappresenta un semplice capitolo della diplomazia contemporanea, ma un passaggio di soglia nella ridefinizione dell’ordine mondiale. Dietro le formule della cooperazione si muove una rivalità sistemica, tecnologica ed energetica che riscrive la grammatica stessa del potere. Con il successo operativo del reattore modulare cinese Linglong One, Pechino segnala la propria maturità industriale e la volontà di ridefinire le regole dell’autonomia strategica. L’energia, più ancora dei semiconduttori o delle reti digitali, diventa oggi il vero terreno su cui si misura la sovranità del XXI secolo.

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Nel momento in cui gli equilibri internazionali si disgregano e la nozione stessa di “ordine” si relativizza, l’imminente incontro tra Donald Trump e Xi Jinping assume il carattere di un esperimento storico.

Non è un vertice bilaterale, ma la collisione fra due modelli di civiltà: l’America della fluidità, basata sull’influenza dei dati e sul dominio della rete, e la Cina della densità, costruita sul controllo della materia e sulla verticalità del comando. Dietro la diplomazia ufficiale si cela una contesa più profonda: chi controllerà le infrastrutture invisibili del mondo che verrà — l’energia, l’informazione, la fiducia.

La Cina, limitando l’export di terre rare, ha ricordato a Washington che la tecnologia è fatta di materia, e che la dipendenza può essere invertita. Trump risponde con la minaccia di una nuova guerra tariffaria, ma il suo orizzonte operativo resta tattico, elettorale. Pechino, al contrario, ragiona in termini geologici: è pronta a tollerare la perdita immediata per consolidare il vantaggio sistemico.

La vera domanda, allora, non è se gli Stati Uniti vinceranno la disputa commerciale, ma se riusciranno a sopravvivere in un mondo in cui l’interdipendenza non è più garanzia di stabilità, ma vettore di vulnerabilità.

Il recente successo del reattore nucleare modulare Linglong One (ACP100) non è soltanto un trionfo ingegneristico: è un manifesto geopolitico. Il Linglong — primo SMR (Small Modular Reactor) commerciale approvato dall’AIEA — rappresenta la materializzazione del pensiero strategico di Xi: energia sicura, scalabile, esportabile. Con esso, la Cina non produce soltanto elettricità: produce influenza. La modularità del sistema consente di offrire ai Paesi emergenti un modello di indipendenza energetica “chiavi in mano”, alternativo alle infrastrutture finanziarie occidentali. È la diplomazia dell’energia che sostituisce la diplomazia del credito: dove Washington presta denaro, Pechino fornisce potenza. Dietro la tecnologia si cela un principio politico: l’autosufficienza come ideologia e come strumento di espansione.

La rivalità sino-americana ha superato la soglia economica per entrare nel dominio della civiltà tecnologica. Semiconduttori, intelligenza artificiale, energia atomica, reti quantistiche: non settori, ma fronti di guerra cognitiva. Il cosiddetto decoupling è ormai un eufemismo: si tratta di una biforcazione sistemica, dove due ecosistemi tecnologici incompatibili si moltiplicano in parallelo.

Gli Stati Uniti difendono la superiorità dell’algoritmo, la Cina quella dell’infrastruttura. L’uno controlla la rete, l’altra il flusso. Entrambi mirano al dominio dello spazio-tempo digitale. Il Linglong One, nel suo silenzio termico, diventa simbolo di questa transizione: il passaggio dall’interdipendenza al dualismo funzionale.

Sul mare dell’Indo-Pacifico, la tensione assume dimensioni telluriche. Washington rilancia AUKUS e Quad come linee di contenimento, ma Pechino, sfruttando la leva energetica, propone un’alternativa: l’egemonia dell’offerta. Ogni reattore venduto, ogni accordo energetico siglato, genera una nuova orbita geopolitica. È il trionfo della deterrenza positiva: dominare non minacciando, ma alimentando. Nel linguaggio secco della strategia: chi fornisce energia, impone regole.

Quando Trump e Xi si incontreranno, le parole saranno secondarie. L’essenza del summit sarà performativa: un tentativo di ristabilire la parvenza di ordine in un sistema che non riconosce più gerarchie stabili. Entrambi i leader sono vincolati da necessità interne: Trump dalla fragilità politica di un’America divisa, Xi dalla rigidità di un modello che deve apparire infallibile. In questa dinamica, l’incontro non potrà produrre compromessi duraturi, ma solo una tregua semantica: un linguaggio comune per gestire l’ostilità permanente.

Il successo del Linglong One segna il passaggio simbolico da una Cina imitatrice a una Cina originaria. Con esso, Pechino non partecipa più alla modernità occidentale: la rifonda. E questo muta la natura stessa del confronto: non più uno scontro di interessi, ma una contesa fra visioni del mondo. L’Occidente, che ha costruito la propria supremazia sull’universalità delle proprie regole, si trova ora di fronte a un avversario che propone un’altra universalità, fondata sulla sovranità tecnica e sull’energia come diritto.

La domanda ultima, per Washington, non è se potrà contenere la Cina, ma se saprà reinventare se stessa in un mondo dove la centralità non è più data, ma negoziata. Mentre i due leader si preparano a parlarsi, il Linglong One già vibra, pronto a generare energia e simboli. Il suo reattore compatto incarna la filosofia cinese del potere contemporaneo: controllare la scala, moltiplicare la replica, dominare il tempo attraverso la miniaturizzazione.

In un secolo in cui la politica diventa termodinamica e la diplomazia è gestione dell’entropia, l’energia nucleare torna a essere linguaggio del potere. Il futuro non apparterrà a chi parla più forte, ma a chi saprà mantenere la luce accesa — nel senso tecnico e metafisico del termine. E forse, quando Trump e Xi si stringeranno la mano, l’unica vera domanda sarà: chi controlla la fonte, controlla il mondo.


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