Quando la forza prevale sul diritto, la pace diventa un’illusione, l’ONU al bivio tra sopravvivenza formale e rinascita morale

Abstract: A ottant’anni dalla sua nascita, l’ONU affronta una profonda crisi di legittimità e di efficacia. Il potere di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, concepito come garanzia di stabilità, è divenuto il principale ostacolo all’azione collettiva. L’articolo analizza le cause storiche e istituzionali di questa paralisi, mettendo in luce la tensione tra idealismo e realpolitik e la necessità di ridefinire la sovranità in senso cooperativo. La sopravvivenza dell’ONU dipende oggi dalla capacità della comunità internazionale di trasformare la memoria del passato in responsabilità attiva per il futuro.
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Gli ottant’anni dell’ONU
Tanti ne compirà l’Organizzazione delle Nazioni Unite il prossimo 24 ottobre. Eppure, mai come oggi, la distanza tra la promessa solenne delle origini e la sua applicazione concreta sembra così drammaticamente profonda.
Nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale per “salvare le generazioni future dal flagello della guerra”, l’ONU avrebbe dovuto rappresentare l’argine etico, giuridico e politico contro il ritorno della barbarie. Ma l’eco di quella promessa si affievolisce ogni giorno sotto il peso di un mondo che corre, mentre l’istituzione che dovrebbe regolarlo resta ancorata a un modello di governance figlio del 1945.
A quasi un secolo dalla sua fondazione, l’ONU appare come una creatura intrappolata nella propria architettura: solenne, ma immobile.
La crisi strutturale e l’anacronistico diritto di veto
La struttura stessa del Consiglio di Sicurezza, il cuore decisionale dell’organizzazione, è oggi il simbolo di un paradosso istituzionale. I cinque membri permanenti — Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia — detengono ancora il potere di veto, un privilegio che consente loro di bloccare qualsiasi risoluzione sostanziale. Non importa quante nazioni si esprimano a favore. Se uno solo dei “P5” si oppone, il sistema si paralizza.
Questa dinamica non è una deriva recente, ma un’eredità genetica del sistema stesso. Il veto fu concepito come garanzia di stabilità e inclusione delle grandi potenze nella nuova architettura globale. Oggi, invece, è divenuto lo strumento attraverso cui gli interessi geopolitici di pochi prevalgono sulla coscienza collettiva.
Non è un’anomalia: è l’essenza stessa della macchina ONU, costruita su un equilibrio tra idealismo e realpolitik. Negli ultimi anni, questa crisi strutturale è esplosa con particolare virulenza.
L’impotenza degli ultimi anni
La guerra in Ucraina ha mostrato l’impotenza dell’ONU nel rispondere all’aggressione russa. Il caso di Gaza, però, ha fatto emergere qualcosa di ancora più grave: una crisi morale. Il 18 settembre 2025, per la sesta volta in due anni, gli Stati Uniti hanno posto il veto su una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato e senza condizioni nella Striscia, oltre alla fine del blocco umanitario imposto da Israele. Quattordici membri su quindici del Consiglio avevano votato a favore. Ma è bastato un “no” a rendere tutto vano. Intanto, la carestia — confermata, non prevista — avanza. Gli ospedali sono diventati obiettivi militari. Le vittime civili si contano a decine di migliaia. E le parole dell’ONU restano sospese, inascoltate, tra le macerie.
Nonostante ciò, la diplomazia continua a scrivere risoluzioni con la precisione di un bisturi, nella speranza che le parole possano ancora cambiare il mondo. Alcune di esse, pur non essendo vincolanti, diventano faro normativo nel diritto consuetudinario. Ma troppo spesso restano lettera morta.
La “Uniting for Peace”, adottata nel 1950 per aggirare il veto durante la guerra di Corea, non ha prodotto nel tempo un cambio strutturale: solo un temporaneo diversivo. La paralisi di oggi, invece, è diventata sistemica.
Quale riforma per l’ONU
Il dibattito sulle riforme è tornato centrale nel 2025, in occasione dell’Assemblea Generale di settembre. Diversi Stati, tra cui India, Brasile e Germania, hanno rilanciato la proposta di ampliamento del Consiglio di Sicurezza e l’introduzione di codici di condotta vincolanti sul diritto di veto in caso di atrocità di massa. Tuttavia, nessuna di queste proposte è riuscita a superare l’ostacolo più insidioso: la ratifica da parte degli stessi membri permanenti che dovrebbero volontariamente rinunciare al proprio privilegio.
La Francia ha reiterato il sostegno alla proposta franco-messicana per una moratoria sul veto in situazioni umanitarie estreme, ma gli Stati Uniti, la Russia e la Cina continuano a opporsi a qualunque forma di autoregolamentazione vincolante. In sostanza, le riforme si discutono, si scrivono, si dichiarano — ma non si realizzano.
Ciò che si delinea, dunque, non è solo un fallimento procedurale. È il tramonto di un’idea di governance multilaterale capace di agire con efficacia davanti ai drammi globali.
Il ruolo odierno dell’ONU
L’ONU, oggi, sembra oscillare tra due ruoli: quello di giudice imparziale, sempre più silenziato, e quello di prigioniero dei blocchi geopolitici, sempre più evidente. Eppure, malgrado tutto, la sua esistenza resta necessaria. Non esiste, al momento, altro spazio in cui anche i Paesi più piccoli possano parlare da pari a pari con le potenze globali. Non esiste altra arena dove la lingua del diritto internazionale continui, per quanto flebilmente, a essere pronunciata.
Ma se l’ONU vuole davvero sopravvivere come attore rilevante nel XXI secolo, deve rinunciare alla nostalgia del passato e accettare il rischio della trasformazione. La vera domanda, allora, non è se l’ONU funzioni. È se noi, come comunità internazionale, vogliamo che funzioni. Siamo disposti a ridefinire il concetto stesso di sovranità per dare spazio a una responsabilità collettiva? Siamo pronti a sacrificare potere per ottenere pace, e silenzio per ottenere verità?
Nel giorno del suo ottantesimo anniversario, le Nazioni Unite non sono morte. Ma non possono più accontentarsi di sopravvivere. La loro legittimità non si misura più con la retorica dei discorsi, ma con la capacità di rispondere concretamente alle tragedie del nostro tempo. Perché se il diritto continua a soccombere davanti alla forza, allora non è solo l’ONU a fallire — è l’intero progetto di civiltà su cui abbiamo fondato l’idea stessa di comunità internazionale. «Quando il diritto cede alla forza, l’umanità arretra», una frase scolpita nella coscienza collettiva, che oggi riecheggia come una richiesta urgente di risveglio.

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