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IL REATO DI DIFFAMAZIONE AGGRAVATA NON SUSSISTE QUANDO L’OFFESA AVVIENE A MEZZO WHATSAPP (Cassazione n. 37618/2023), Luigi De Simone

La Cassazione non è d’accordo!

Luigi De Simone

Abstract: La Suprema Corte di Cassazione, con una recente pronuncia, ha stabilito che l’ipotesi aggravata della diffamazione è da ricercare nella “particolare diffusività” dei mezzi utilizzati, come i mezzi di  stampa o i social network su internet, che raggiungono un numero cospicuo e indeterminato di persone, e pertanto non può trovare applicazione nelle chat dove è presente un numero ristretto di utenti.

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Con la rapida evoluzione della tecnologia assume interessanti connotati il reato di diffamazione e, in particolare, della configurabilità dell’ipotesi aggravata di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p.1, in caso di offese a mezzo whatsapp.

In realtà, nel caso che ci occupa, i procedimenti di primo e secondo grado erano stati incardinati presso la giustizia militare in quanto il protagonista era, appunto, un militare, indagato  per violazione del comma 2 articolo 227 Codice penale militare di pace, ex R.D. 20 febbraio 1941 n. 3032, ipotesi di diffamazione aggravata mutuata dalla corrispondente fattispecie prevista dal Codice Rocco.

Il caso approdato innanzi alla giustizia militare riguardava la contestazione del reato di diffamazione continuata, pluriaggravata a carico di un sottufficiale che in una chat dell’applicativo whatsapp, con sette partecipanti in tutto, in un periodo di circa dieci mesi, avrebbe inviato più messaggi offensivi nei confronti di altri colleghi non presenti nella chat.

Il Tribunale Militare condannava il sottufficiale per diffamazione aggravata in quanto ritenuta commessa con “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, ovvero a mezzo whatsapp, al fine di raggiungere quante più persone possibile.

La Corte di Appello Militare, con una sentenza del mese di ottobre 2022, ritenendo la fattispecie rientrante nell’ipotesi di diffamazione ex comma 1 art. 227 Codice penale militare di pace3 e non nell’ipotesi aggravata, di cui al comma 2 art. 227 dello stesso codice, contestata in primo grado, dichiarava di non doversi procedere a carico del militare, in quanto era venuta meno la condizione di procedibilità, ovvero la richiesta di procedimento omologa della querela in ambito penale. Infatti per il giudice militare di secondo grado l’utilizzo di una chat di whatsapp, con solo sette persone iscritte, non integrava la predetta ipotesi aggravata. In particolare è da escludersi che l’utilizzo della chat ristretta possa far ritenere integrata l’ipotesi dell’offesa recata con un mezzo di pubblicità. Secondo i giudicanti non rileva che il messaggio, destinato ad un numero ristretto di persone, possa essere potenzialmente inoltrato ad un numero indefinito di persone, in quanto tale condotta sarebbe da addebitare al destinatario e non al mittente del messaggio. L’attenzione è posta quindi non tanto sul mezzo tecnologico utilizzato, ancorché idoneo a concretizzare una diffusione ampia dei contenuti lesivi, ma sul numero ristretto degli aderenti alla chat.

Contro l’assoluzione il Procuratore generale militare ricorreva in Cassazione, sostenendo che la soluzione adottata dalla Corte Militare di esclusione dell’aggravante era errata. A supporto  della sua tesi citava l’orientamento della stessa Cassazione, diretto a riconoscere l’aggravante in caso di post pubblicati sulla piattaforma Facebook4 o in caso di invio plurimo di mail.

Gli Ermellini ritenevano il ricorso infondato5, partendo dalla premessa che la caratteristica essenziale della diffamazione, sia essa come fattispecie ex art. 595 Codice Penale, sia come fattispecie ex art. 227 Codice Penale Militare di Pace, fosse la comunicazione rivolta a più persone ed in assenza dell’offeso. Secondo la Corte di Cassazione la ratio dell’ipotesi aggravata è da individuare nella “particolare diffusività” dei mezzi utilizzati, come i mezzi di  stampa o internet, di recente apparizione a causa del progresso tecnologico, che raggiungono un numero cospicuo e indeterminato di persone.

Poi, però, gli stessi giudici proseguono affermando che gli strumenti di comunicazione digitale non sono tutti uguali e non funzionano tutti nel medesimo modo. Infatti la Corte di legittimità ritiene l’applicativo whatsapp, per le sue caratteristiche ontologiche, uno strumento di comunicazione di certo “agevolante” ma, al contempo, “ristretto”, nel senso che il messaggio raggiunge esclusivamente i soggetti iscritti alla medesima chat.

Pur concordando con il Procuratore Generale Militare sul fatto che la pubblicazione sulla piattaforma social Facebook di post lesivi costituisca l’aggravante, individuata nell’utilizzo del mezzo di pubblicità, il Collegio evidenzia una rilevante diversità, ai fini della integrazione della particolare aggravante, tra l’utilizzo di un social, strumento che si rivolge per definizione ad una ampia platea di persone, con la possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, così da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata, e l’utilizzo di una chat di messaggistica ristretta. Evidenzia, ancora, che la diffusione del messaggio a più soggetti, iscritti alla chat,  avviene, in altre parole, in un contesto informatico che, se da un lato, consente la rapida divulgazione del testo, dall’altro, non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone.

Per quanto evidenziato ed in virtù del principio di tassatività in ambito penale, il ricorso veniva rigettato.

A seguito dell’innovazione tecnologica, fenomeno, come abbiamo visto, citato anche dalla Cassazione, ormai siamo abituati a scrivere sui social e sui gruppi senza alcun filtro e senza alcun freno lasciandoci travolgere dalla foga, dalle discussioni e dall’ambiente apparentemente privato, senza renderci conto che con un click arriviamo ovunque. Nel caso trattato è andata bene per l’imputato, ma è opportuno utilizzare i mezzi di comunicazione a nostra disposizione con buon senso e rispetto altrui, anche perché, in riferimento all’applicativo whatsapp, non si escludono evoluzioni giurisprudenziali.


NOTE

1 Codice penale art. 595 comma 3 «Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro».

Codice penale militare di pace art. 227 comma 2 «Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto  determinato,  o è recata per mezzo della stampa  o  con  qualsiasi  altro  mezzo  di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la  pena  è  della  reclusione militare da sei mesi a tre anni».

3 Codice penale militare di pace art. 227 comma 1 «Il militare, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando  con  più  persone,  offende  la  reputazione  di  altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi».

  1. Cassazione penale, sez. V, sentenza 25 gennaio 2021 n. 13979 , Sez. I, sentenza 28 aprile 2015. n. 55142
  2. Cassazione penale, sez. I, sentenza 19 maggio 2023 n. 37618 depositata il 14 settembre 2023.

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