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GIORNALISTA DI GUERRA E GIORNALISTA EMBEDDED, DUE FACCE DELLO STESSO FOGLIO, Lucrezia Fioretti

Giornalista di guerra e giornalista embedded, due facce dello stesso foglio

Abstract: Basta aprire un social, accendere la televisioni, ascoltare un podcast, e potremmo interfacciarci con realtà molto distanti da noi, geograficamente e anacrosticamente. Ancor più distanti dal punto di vista delle esperienze se queste dovessero essere storie di guerre. Se a raccontarle, poi, sono giornalisti di guerra che tracciano la linea tra le nostre vite e quelle delle vittime civili, allora sapranno essere ancora più è forti empaticamente parlando. Non sempre però conosciamo la figura che ci sta parlando e le pericolosità che essa stessa può affrontare affinché una storia venga narrata. È giusto quindi che queste definizioni vengano dettate e che la Comunità Internazionale si adoperi affinché, i giornalisti di guerra e quelli embedded, possano continuare a vedere, scrivere, raccontare e dettare pagine di storia.

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Tra le prime e più importanti risoluzioni nel diritto internazionale nella definizione dello status di giornalista di guerra troviamo la Risoluzione n°1597 del 21 maggio 1971 del Consiglio economico e sociale e la risoluzione dell’Assemblea Generale n° 2854 del 20 dicembre 1971.

Queste hanno permesso l’incipit dei diversi tentativi, iniziati appunto negli anni ’70 del secolo precedente, per assicurare a tutti i giornalisti di guerra una loro protezione. Grazie ad un loro primo riconoscimento a livello internazionale è stata permessa l’introduzione delle norme volte alla protezione dei reporter negli atti di diritto umanitario. Ad oggi, purtroppo, dopo le numerose notizie riguardanti le numerose vittime comunicative in contesti di guerra, ci rendiamo conto che i tentativi internazionali non riescono ancora a soddisfare in maniera totale ed effettiva l’attività d’informazione durante i conflitti svolta dai giornalisti e una loro completa protezione.

Il giornalista infatti, in zone belliche, risulta avere un ruolo ancora più rilevante, dettagliato e complicato. La diffusione d’informazione che sta alla base del ruolo dello stesso diventa ancor più il pericolo stesso. Ecco che reportage, filmati, documentari, fotografie e racconti diventano lo specchio di una realtà esposta più che mai all’opinione pubblica, che è ora in grado di ricevere una diretta narrazione del conflitto. In mancanza di tutto ciò verrebbe meno il racconto e si cadrebbe in una sorta di censura attuata dai vari governi e Stati che, chiaramente, deciderebbero quali eventi e fatti del determinato evento bellico raccontare. È chiaro al contempo che il ruolo del giornalista di guerra non si limita tuttavia alla mera narrazione. Infatti, molto spesso, quello che accade è che il loro lavoro non si fermi alla pubblicazione di un articolo o di un reportage, ma che i loro racconti vengano utilizzati come prove e testimonianze di fronti a corti e tribunali internazionali e vengono accolti non solo come giornalisti di guerra, ma come veri e propri testimoni di crimini di guerra.

Necessaria risulta essere quindi una loro protezione: un processo a livello internazionale che ne permetta la sicurezza. Processo che, però, ancora oggi giorno, non è a pieno completato. Questo perché di base, le prime difficoltà che emersero furono proprio nella definizione del concetto di giornalista di guerra. Se dovessimo generalizzare e distinguere il giornalista di guerra in due categorie troveremmo il giornalista di guerra e il giornalista embedded.

Nella definizione del primo risultano rilevanti differenti regolamenti e risoluzioni della Comunità Internazionale (come il Regolamento Relativo alle leggi e agli usi della guerra terrestre, annesso alla Convenzione adottata all’Aja il 18 ottobre 1907, le risoluzioni del Consiglio economico e sociale n°1597 del 1971, la risoluzione dell’Assemblea Generale n° 2854 del 1971, il Protocollo relativo alla protezione delle vittime durante i conflitti armati internazionali dell’8 giugno 1977, aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra del 12 agosto del 1949).

Il primo, il Regolamento relativo alle leggi e agli usi della guerra terrestre, risulta fondamentale perché all’articolo 13 specifica che i giornalisti di guerra godono anche della protezione dei prigionieri di guerra, questa però è relegata solo a coloro che “godono di una legittimazione dell’autorità militare dell’esercito che accompagnano”. Nel momento, infatti, in cui dovesse manifestarsi un dubbio sull’appartenenza alla categoria del giornalista di guerra, allora viene a mancare la protezione. Sarà necessario quindi l’intervento di un tribunale per un accertamento specifico della qualifica. Nel caso in cui l’accertamento dovesse risultare positivo, limitatamente alla sua posizione, il giornalista catturato avrà comunque diritto di non fornire informazioni, ma può essere detenuto comunque per tutta la durata del conflitto e rilasciato solo alla fine di questo.

Sarà poi il I Protocollo relativo alla protezione delle vittime durante i conflitti armati internazionali ad inserire nell’articolo 73 la definizione di giornalista di guerra per capire verso chi applicare le varie protezioni. “Giornalista di guerra è colui che svolge missioni professionali pericolose in zone di conflitto e che abbiano ottenuto una carta d’identità conforme al modello annesso all’allegato II che sia rilasciata dal Governo dello Stato di cittadinanza o della residenza o nel quale si trova l’agenzia o l’organo di stampa che egli impiega e che attesti la qualifica del suo titolare”. Inoltre, stabilisce che questi saranno considerati come persone civili, a condizione chiaramente che i giornalisti di guerra evitino di compiere azioni che compromettono il loro stesso status di persone civile.

Esiste tuttavia, come accennavo prima, la figura del giornalista embedded, che non ha il medesimo riconoscimento. Il giornalista embedded, infatti, è colui che si aggrega alle forze armate di uno Stato e segue il conflitto con le stesse truppe, partecipando quindi direttamente ai vari contesti bellici. È una figura la cui nascita è ricondotta durante la Seconda Guerra Mondiale, per poi svilupparsi ancor meglio nel periodo della Guerra in Vietnam, diventando una vera e propria figura fondamentale, soprattutto dell’esercito statunitense, nel 2003 durante la guerra in Iraq. In realtà già gli stessi corrispondenti di guerra erano spesso aggregati ai vari eserciti, la differenza tra i due, e la critica anche che scaturisce da ciò, è il diverso mantenimento di un’autonomia di movimento e conseguentemente di opinione. Questo perché l’embedded riceve un addestramento specifico, al fianco costante delle truppe, e deve sottostare a degli accordi specifici che richiedono impegno a non rilasciare determinate informazioni. Il giornalista embedded può utilizzare come fonte certa solo quella degli apparati militari, compromettendo quindi ulteriormente l’obiettività della sua informazione.

Ecco che emergono le prime critiche, soprattutto alla figura dell’ embedded. Un ruolo del genere segna anche l’impossibilità di attuazione di una vera libertà di opinione e informazione. Se da un lato questo è l’aspetto criticato, dall’altro però è come se mancasse il riconoscimento della figura quanto tale, al pari del giornalista di guerra di cui abbiamo parlato in principio. Se ci troviamo già in un contesto internazionale che fatica a trovare gli strumenti giusti da adottare di fronte alle ingiustizie in questioni subite – e quindi già partendo svantaggiati – la destrutturazione in due delle categorie non porta ad altro se non a maggiori difficoltà belle definizioni e nella protezione. È stato  infatti necessario un intervento giuridico che stabilisce, con il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con la raccomandazione 4 del 3 maggio 1996 che la tutela finisce poi con l’estendersi ad entrambi.

La situazione però risulta difficilmente estendibile e adattabile oggi, 27 anni dopo, vista l’emersione di maggiori figure che entrano a far parte delle troupe di giornalisti, dai cameramen, ai microfonisti, traduttori, fino ai fotoreporter. Se la Comunità Internazionale ha ancora passi in avanti da fare nel panorama di protezioni potenzialmente applicabili, al contempo il ruolo degli Stati non deve essere omesso in questo campo. Dovrebbero infatti essere in grado di assicurare in ogni caso un’adeguata protezione ai giornalisti che svolgono questa attività in conflitti, che siano quest’ultimi internazionali o no. Una buona preparazione e un supporto chiaro e diretto con i reporter garantirebbe maggiore sicurezza e riuscirebbe, per quanto possibile, ad arginare la possibilità che la Parola in guerra venga ferita e uccisa.


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