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31 MAGGIO 1972, LA STRAGE DI PETEANO Massimiliano e Francesco Mancini

A 50 anni dalla trappola neofascista contro i Carabinieri, che fece 3 morti e 2 feriti, e che fu depistata dagli stessi Carabinieri per coprire le trame eversive contro lo Stato democratico.

di Massimiliano Mancini

Abstract: A 50 anni (1972-2022) dall’autobomba che fece strage di Carabinieri in Friuli Venezia Giulia, organizzata dal movimento neofascista Ordine Nuovo, nell’ottica della “Strategia della Tensione” finalizzata a destabilizzare l’ordine pubblico per imporre uno stato autoritario, la verità processuale sui depistaggi dei vertici degli stessi Carabinieri per coprire le trame del terrorismo nero e gli interessi statuniutensi, che arrivarono a far incarcerare 6 innocenti. Gli autori, i sospetti su Gladio e il ruolo di Giorgio Almirante e del MSI.  

 

e di Francesco Mancini

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L’autobomba dell’attentato
Il contesto sociopolitico

Il 17 maggio 1972 si era verificato l’omicidio del commissario Luigi Calabresi e il dibattito politico non si era sopito anzi si era acuito con il timore di un nuovo tentativo di colpo di Stato dopo il Golpe Borghese che era avvenuto in precedenza.

Il terrorismo neofascista, sostenuto anche dagli interessi statunitensi a contrastare governi di sinistra e l’ascesa del PCI, da tempo aveva realizzato scontri e attentati esplosivi, nell’ottica del progetto strategico noto come “Strategia della tensione” ossia la creazione di un clima diffuso di paura che giustificasse la limitazione delle libertà democratiche costituzionali e l’adozione di norme straordinarie e d’urgenza che portassero alla ricostituzione dello Stato fascista.

L’antefatto

Ai carabinieri di Gradisca d’Isonzo, nella provicnia di Gorizia, giunge una telefonata anonima che annuncia: «Pronto? Senta, vorrei dirle che c’è una machina con due buchi sul parabrezza nella strada da Poggio Terza Armata a Savogna… la xè una 500…»[1].

La vettura si sarebbe trovata sulla strada provinciale Sagrado – Savogna d’Isonzo e, precisamente, nella località Peteano del comune di Sagrado, tra la sponda sinistra del fiume Isonzo e l’altopiano carsico.

Giungono sul posto 3 auto dei Carabineri, la prima alle 22:45 con a bordo l’appuntato Salvatore Mango e il carabiniere Franco Dongiovanni (1949-1972) che rinvennero l’auto oggetto della segnalazione, la Fiat 500 bianca targata GO 45902 con i due buchi sul parabrezza, in un viottolo di terra battuta circondata da una fitta boscaglia.

Ispezionarono l’abitacolo ma non trovarono né documenti né bossoli né macchie di sangue, null’altro che potesse giustificare quei fori di proiettile.

Antonio Ferraro

Alle 23:05 li raggiunse un’altra auto con il comandante della Tenenza dei Carabinieri, il sottotenente Angelo Tagliari, accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro (1941-1972) e dal carabiniere scelto Donato Poveromo (1939-1972).

Alle 23:25 giunse da Gorizia anche una “Giulia” con targa civile del Nucleo Investigativo del Gruppo Carabinieri, con a bordo il sottotenente Gino Zazzaro e il carabiniere Costantino D’Alessio.

L’esplosione
Donato Poveromo

Il sottotenente Tagliari, intanto, aveva iniziato a ispezionare l’ambiente circostante e l’automobile, quando decise di aprire il cofano, azionando la leva di sblocco alla quale era agganciato un accenditore a strappo che faceva da detonatore, innescò una carica esplosiva che era nel bagagliaio costituito da T/4, un tipo di plastico di provenienza non nazionale, e l’auto esplose.

L’attentato uccise:

  • brigadiere Antonio Ferraro, siciliano, 31 anni;
  • carabiniere scelto Donato Poveromo, lucano, 33 anni;
  • carabiniere Franco Dongiovanni, leccese di 23 anni.
Franco Dongiovanni

Erano tutti sposati e la moglie di Ferraro era incinta.

Furono inoltre gravemente feriti:

  • tenente Angelo Tagliari;
  • sottotenente Gino Zazzaro.

Entrambi furono sbalzati di molti metri e ustionati, Tagliari perse anche una mano.

I depistaggi dagli alti livelli dei Carabinieri

L’attentato non venne rivendicato e le indagini furono affidate e svolte irritualmente in prima persona dal colonnello Dino Mingarelli, comandante della Legione Carabinieri di Udine e vecchio collaboratore del chiacchieratissimo generale Giovanni De Lorenzo (1907-1973), che fu capo del servizio segreto militare SIFAR, comandante generale dell’Arma dei carabinieri e capo di stato maggiore dell’Esercito, destituito nel 1967 per le deviazioni dei servizi segreti [2], eletto deputto del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica e rieletto nelle file del MSI. Il generale De Lorenzo è noto, soprattutto, ritenuto uno dei massoni iniziato alla loggia segreta P2 [3] [4] nonché uno degli organizzatori del colpo di Stato noto come Piano Sole previsto per l’estate del ’64 e abortito all’ultimo minuto [5].

Come avverrà in seguito anche per la strage di Piazza della Loggia a Brescia, i Carabinieri tennero le indagini lontane dagli ambienti della destra eversiva, secondo l’interpellanza socialista (Fortuna e altri) del 17 dicembre 1975, nel novembre del 1972, nel novembre del 1972 il SID avrebbe impartito al colonnello Mingarelli l’ordine di non indagare negli ambienti della destra eversiva.

La pista rossa e l’occultamento delle prove a carico di Ordine Nuovo

Le indagini furono indirizzate subito sulla pista del terrorismo rosso e in particolare verso gli ambienti di Lotta Continua di Trento, lasciando indisturbata la sezione udinese di Ordine Nuovo, benché da mesi in Friuli si stessero ripetendo attentati dinamitardi dimostrativi la cui matrice poteva essere chiaramente messa in connessione con ambienti neofascisti.

La magistratura milanese aveva avuto importanti rivelazioni da Giovanni Ventura (1944-2010), terrorista di Ordine Nuovo e piccolo editore legato al terrorista nero Franco Freda, arrestato per la strage di piazza Fontana, che aveva riferito che l’attentato era stato organizzato da un gruppo terrorista neofascista di cui faceva parte anche Ivano Boccaccio, il militante di Ordine Nuovo che sarà ucciso nel dirottamento all’aeroporto di Ronchi dei Legionari nell’ottobre successivo.

Il 6 ottobre 1972 avvene il dirottamento di Ronchi dei Legionari dove fu ucciso il terrorista di Ordine Nuovo Ivano Boccaccio (1951-1972), che aveva una pistola risultante di proprietà di Carlo Cicuttini, altro militante ordinovista e segretario della sezione di Manzano del Movimento sociale italiano.

I carabinieri non evidenziarono che i bossoli della pistola che aveva sparato alla Fiat 500 di Peteano, per fare i fori sul parabrezza, erano dello stesso calibro .22 dell’arma impugnata dal dirottatore di Ronchi dei Legionari, quindi per lungo tempo le due vicende restarono separate nelle indagini.

La pista gialla e l’incriminazione di innocenti
Dino Mingarelli

Neanche dopo questo episodio le indagini si rivolsero agli ambienti neofascisti e la pista del terrorismo nero non venne considerata in alcun modo, quindi, apparendo del tutto inconsistente qualsiasi ipotesi di coinvolgimento degli ambienti di sinistra, il colonnello Dino Mingarelli e il suo “braccio destro” il capitano Antonino Chirico (1930-2020), che saranno entrambi arrestati per questo depistaggio nel 1985, spostarono le indagini sulla criminalità comune, la c.d. “pista gialla” non politica, che portò nel 1973 agli arresti di sei persone.

Il colonnello Mingarelli sosteneva che il loro movente sarebbe stato una non meglio precisata volontà di vendetta contro l’Arma e in quel periodo andò in onda diverse volte nei telegiornali RAI escludendo nel modo più assoluto che all’ origine dell’ attentato vi fossero motivazioni politiche.

Antonio Chirico

Dopo un anno di carcere preventivo, dopo un processo drammatico e sconcertante, furono assolti pienamente e, ciononostante, la sentenza definitiva arrivò solo nel 1979 restituendo la libertà e la verità ai sei giovani innocenti, i quali, una volta liberi, denunciarono il colonnello Mingarelli e il capitano Chirico per le false accuse, dando inizio a una nuova inchiesta contro ufficiali dei carabinieri e magistrati per aver deviato le indagini.

Il processo e la verità giudiziaria

La verità arrivò solo negli anni ’80, dopo 11 anni dalla strage.

Nel 1984 Vincenzo Vinciguerra (1949) decise di assumersi la responsabilità dell’attentato di Peteano, non perché pentito, ma per una scelta politica e ideologica:
«L’imputato (…) non ha inteso rendere una confessione che sia riconoscimento di condotte illecite, ma ha inteso assumersi una responsabilità nel quadro di una ricostruzione storica di avvenimenti che lo vedono tuttora convinto del valore del suo disegno politico all’interno del quale trovano giustificazione i singoli episodi delittuosi contestatigli. La sua figura di soldato politico non è mai venuta meno e mantiene intatta la sua posizione offensiva nei confronti dello Stato democratico»

Il terrorista neofascista Vinciguerra  rivelò che nel 1982 l’ex repubblichino Giorgio Almirante (1914-1988), fondatore e segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano, aveva fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a Carlo Cicuttini (1947-2010), dirigente del MSI friulano e coautore della strage di Peteano, per un intervento alle corde vocali affinché nonfosse riconosciuto come l’autore della telefonata che aveva attirato in trappola i Carabinieri.

Nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione dei documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao e il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti

La conclusione e i responsabili

Vincenzo Vinciguerra (1949), l’autore principale dell’attentato, da reo confesso è stato condannato all’ergastolo, da irriducibile rinunciò al ricorso in appello e ha continuato a rifiutare ogni beneficio per ridurre la detenzione carceraria, dimostrando che le sue deposizioni non erano motivate dal desiderio di ottenere vantaggi personali.

Carlo Cicuttini, il telefonista, è stato condannato all’ergastolo in contumacia, ma per due volte nella Spagna post franchista i giudici negarono la sua estradizione in Italia, fu arrestato nel 1983, ma la Spagna aveva approvato una legge nel 1977 che dichiarava non perseguibili i delitti politici. Attirato in Francia con una promessa lavorativa, è stato arrestato ed estradato in Italia nel 1998, per scontare anche la condanna a 10 anni per l’assalto all’Aeroporto di Ronchi dei Legionari. Ė morto nel 2010 per un cancro.

Ivano Boccaccio, il militante che aveva la pistola che sparò al parabrezza della 500 bianca era già morto nel dirottamento all’aereoporto di Ronchi dei Legionari.

Giorgio Almirante, accusato di favoreggiamento aggravato degli autori di un attentato terroristico, si avvalse per anni dell’immunità parlamentare per evitare il processo che ha condannato l’avvocato Eno Pascoli che fece da tramite, fino a una provvidenziale amnistia che lo salvò in quanto ultrasettantenne.

I Carabinieri condannati

Dopo lunghe indagini e processi che hanno coinvolto anche i colonnelli Michele Santoro e Angelo Pignatelli del Sid, sospettati di aver coperto i reali autori dell’ attentato accusando persone e gruppi di sinistra che nulla avevano a che fare con la morte dei tre carabinieri di Peteano, il prefetto Vito Molinari e l’ ex procuratore capo di Gorizia Bruno Pascoli, il giudice istruttore goriziano Raul Cenisi, il magistrato che condusse allora le indagini, nel 1992 sono diventate definitive le condanne per i carabinieri:

Dino Mingarelli, che aveva raggiunto il grado di generale di brigata, è stato condannato a 3 anni e 10 mesi per il depistaggio delle indagini.

Antonino Chirico, che aveva raggiunto il grado di colonnello, è stato condannato a 3 anni e 10 mesi per il depistaggio delle indagini assieme a Dino Mingarelli.

Giuseppe Napoli, maresciallo dei Carabinieri, è stato condannato a 3 anni e 1 mese per aver aveva fatto perdere le tracce dei terroristi neri.

I misteri irrisolti
  • Nonostante l’impegno del giudice Felice Casson, non è stato accertata la reale provenienza dell’esplosivo impiegato nonostante i tanti sospetti che lo riconducono ai depositi di Gladio.
  • Il ruolo dei servizi segreti statunitensi che supportavano il Piano Sole per affermare una dittatura militare anche in Italia come nel caso del Regime dei colonnelli in Grecia.
  • Cosa abbia potuto creare una così fitta rete di connivenze all’interno dell’arma dei Carabinieri al punto da coprire gli assassini dei propri colleghi.
I funerali di Stato

 

NOTE:

[1] Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Roma, Nuova Eri, 1992.

[2] Indro Montanelli e Mario Cervi, L’Italia dei due Giovanni, Milano, Rizzoli, 1989.

[3] Mario Guarino e Fedora Raugei, Licio Gelli: Vita, misteri, scandali del capo della Loggia P2, Edizioni Dedalo, 2016.

[4] Gianni Flamini, Il partito del golpe: le strategie della tensione e del terrore dal primo centrosinistra organico al sequestro Moro, I. Bovolenta, 1985.

[5] Indro Montanelli e Mario Cervi, L’Italia degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 1991.

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