ETHICA SOCIETAS-Rivista di scienze umane e sociali
Diritto RIVISTA Rossana Mongiardo

LE OPERAZIONI FISCALI INESISTENTI Rossana Mongiardo

di Rossana Mongiardo

L’inquadramento giuridico processuale dei reati finanziari con particolare riferimento alle fattispecie della falsa fatturazione e dell’interposizione reale e fittizia.

[Ethica Societas anno 1 n.1]

Il processo penale diretto all’accertamento e alla repressione di eventuali reati tributari trova, com’è noto, la sua disciplina essenzialmente nel D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (ampiamente rivisto con D. Lgs. n. 158/2015), per quanto concerne le persone fisiche, e nel D. Lgs. n. 231/2001, n. 231 (da ultimo, rivisto con D.L. n. 124/2019, convertito con legge n. 157/2019) per quanto concerne le persone giuridiche.

Entrambi i microsistemi – ove non operi la disciplina derogatoria – vanno integrati con la disciplina processuale generale, rappresentata dal Codice di procedura penale del 1988 e dalla normativa satellite: ciò implica, da un lato, che la disciplina generale – ove anche modificata – non faccia venir meno le regole processuali specifiche valide in relazione a ciascun settore e, dall’altro, che le modifiche alla disciplina generale incidano anche sul sistema 231 e sul sistema penal-tributario, in quanto compatibili.

Venendo, nello specifico, alla normativa in materia di reati fiscali e tributari, di cui al D. Lgs. 74/2000, non si può non evidenziare che la stratificazione delle norme penali e di quelle tributarie che, come detto, si integrano tra loro, abbia posto, e pone continuamente nella prassi all’ operatore giuridico sia problemi di interpretazione che di applicazione.

In questo articolo ci occuperemo dell’art. 2 del D. Lgs. 74/2000 che punisce, testualmente, chi “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”.

Dunque, al fine della realizzazione di tale condotta, è necessario che siano attuati due comportamenti distinti e tra loro alternativi:

  • la collazione delle fatture o degli altri documenti per operazioni inesistenti con successiva registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o la loro detenzione a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (art. 2, comma 2, D. Lgs. n. 74/2000);
  • l’indicazione, nella dichiarazione annuale, di elementi passivi fittizi o di attivi inferiori a quelli reali, suffragando tali circostanze con i documenti previamente registrati (cfr., tra le varie, Cass. Pen., Sez. VI, 31 agosto 2010, n. 32525).

Sul punto, lumeggia, poi, l’art. 1, lett. a) del D. Lgs. n.74/2000, che statuisce che “per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti s’intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilevo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.

Ne deriva quindi l’impossibilità di individuare una fattispecie giuridica univoca per delineare i caratteri dell’operazione inesistente, dovendosi piuttosto valorizzare una sorta di bipartizione tra inesistenza oggettiva e inesistenza soggettiva.

Ma quanto ricorre un’operazione oggettivamente inesistente? Ciò avviene in due casi:

  • quando le fatture documentino un’operazione mai realizzata completamente (inesistenza oggettiva c.d. assoluta o totale);
  • quando le fatture documentino un’operazione mai realizzata solo in parte, ovvero in termini quantitativi differenti rispetto a quelli rappresentati cartolarmente (inesistenza oggettiva relativa o parziale).

In entrambe le ipotesi, l’operazione, pur essendo totalmente o parzialmente inesistente sul piano materiale, consente all’utilizzatore di conseguire un vantaggio fiscale indebito (sia ai fini delle imposte dirette che ai fini IVA), attraverso l’indicazione, nelle relative dichiarazioni, di elementi passivi fittizi, che gli garantiranno di comprimere il più possibile il proprio reddito.

All’ interno della categoria dell’inesistenza oggettiva, è possibile poi effettuare una distinzione ulteriore tra inesistenza materiale e inesistenza giuridica.

Affinché venga integrata la prima fattispecie, è necessario che la transazione non esista in natura, ovvero che la cessione di beni o la prestazione dei servizi, come risultanti dalla fattura, non siano mai state effettuate in concreto o che lo siano state in termini quantitativi inferiori rispetto a quelli dichiarati.

Ricorre l’ipotesi dell’inesistenza giuridica, di converso, in tutti i casi in cui la fattura attesti la conclusione di un negozio giuridico diverso da quello realmente compiuto dalle parti (è il caso del c.d. negozio simulato).

Con riferimento a tale ipotesi, non si può peraltro trascurare che, con il c.d. restyling della disciplina dei reati tributari effettuato dal D. Lgs. n.158/2015 al D. Lgs n. 74/2000, è stata introdotta e tipizzata, quale ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, quella delle “operazioni simulate oggettivamente e soggettivamente inesistenti”(art.3).

Nello specifico, le operazioni frutto di simulazione, assoluta o relativa, sono quelle poste in essere con la volontà di non realizzarle, totalmente o parzialmente, così come statuito dall’art. 1 comma g-bis, che definisce tali operazioni apparenti, distinguendole, quindi, da quelle inesistenti di cui al comma a) dello stesso articolo (nel primo caso, infatti, si realizza un’operazione, in tutto o in parte diversa da quella effettivamente voluta, mentre nel secondo non si compie alcuna operazione).

La prima ipotesi è ora punita ai sensi dell’art. 3 del D. Lgs. n.74/2000, mentre la seconda resta punibile a norma dell’art. 2 citato, sì da poter ritenere che tale distinzione abbia condotto al superamento del dibattito relativo all’inesistenza naturalistica o giuridica, rientrando la seconda nell’art. 3 cit. e la prima nell’art. 2 cit.

La falsità delle fatture ha, invece, carattere soggettivo quando l’operazione è stata sì posta in essere, ma tra soggetti diversi da quelli figuranti come parti del rapporto.

Ciò in quanto anche la falsa indicazione dell’emittente e/o del destinatario della fattura concorre ad inficiare la veridicità dell’attestazione documentale della transazione, consentendo all’utilizzatore di portare in deduzione costi effettivamente sostenuti ma non documentati o non documentabili per varie motivazioni.

Rientra nell’ambito dell’inesistenza soggettiva il caso di “interposizione”, sia fittizia che reale.

La prima figura ricorre quando l’operazione è in realtà avvenuta, ma fra soggetti diversi da quelli dichiarati; inoltre, tutti i soggetti vogliono che gli effetti del negozio si producano nei confronti di una persona diversa da quella che traspare nell’atto.

L’interposizione fittizia sussiste, pertanto, quando le parti abbiano realmente posto in essere un negozio, oggetto di quella che, in termini civilistici, rappresenta la c.d. simulazione relativa soggettiva (che ricorre, come noto, quando fra le parti sia intervenuto un accordo di fatto diverso da quello risultante ex contractu, in modo da dissimulare il contraente effettivo).

Proprio per scongiurare i rischi derivanti dall’elevata frequenza con cui si verificano in ambito tributario casi di interposizione fittizia, il legislatore è intervenuto con l’ introduzione di una disposizione antielusiva (art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973), secondo cui “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.

Al contrario dell’interposizione fittizia, quella reale ricorre, invece, quando gli effetti della vendita si producono realmente in capo all’acquirente.

Pertanto, affinché possano aversi effetti tributari penalmente rilevanti, occorre che una terza persona ponga in essere un successivo negozio di trasferimento in favore di un altro soggetto.

Riassumendo.

Nell’interposizione reale è, dunque, l’interposto il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, che origina dal “fatto-presupposto”, a sua volta nato dal compimento del negozio giuridico con il terzo; di contro, nell’interposizione fittizia è l’interponente il soggetto passivo della relativa obbligazione tributaria.

Quanto all’elemento soggettivo del reato (punito a titolo di dolo specifico, in quanto caratterizzato, per espressa e letterale statuizione, dalla finalità di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto), la giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis, Sez. 3, n. 19012 del 11/02/2015, Rv. 263745) ha affermato che, nel delitto di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, di cui all’art. 2 del D. Lgs. n. 74/2000, il dolo è ravvisabile nella consapevolezza, in chi utilizza il documento in dichiarazione, che colui che ha effettivamente reso la prestazione non ha provveduto alla fatturazione del corrispettivo versato dall’emittente, in tal modo conseguendo un indebito vantaggio fiscale in quanto l’Iva versata dall’utilizzatore della fattura non è stata pagata dall’esecutore della prestazione medesima (al riguardo, la Corte ha precisato che il principio di diritto tributario, per il quale incombe sull’Erario l’onere di provare che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione, invocata a fondamento della detrazione, si inseriva in una evasione commessa dal fornitore, non può essere automaticamente trasposto in sede penale, attesa l’autonomia fra i relativi procedimenti, sicché è esclusivamente al Giudice penale che, sulla base degli elementi di fatto oggetto di libera valutazione ai fini probatori, compete accertare la configurabilità di eventuali illeciti penali).

L’art. 12 prevede sanzioni accessorie in caso di condanna per uno dei delitti previsti dal D. Lgs. 74/2000 e, quindi, anche con riferimento all’art. 2, come l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni e la pubblicazione della sentenza a norma dell’ art. 36 c.p.

Il comma 2 bis della sopra citata norma statuisce, inoltre, che per i reati fiscali l’istituto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 163 c.p. non trova applicazione nei casi in cui ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

  • nel caso in cui l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore al 30 per cento del volume d’ affari;
  • quando l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore a tre milioni di euro.

Un’importante ricaduta della mancata estinzione del debito tributario anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, si ha, a livello processuale, in relazione alla possibilità di chiedere l’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 e ss c.p.p., preclusa dall’art. 13 bis del D. Lgs. 74/2000 (benché, sul punto, la Suprema Corte, di recente, in numerose pronunce, e, da ultimo, con la sentenza n. 11620 del 28.03.2021, abbia mostrato un’apertura, ammettendo che si possa accedere al rito speciale del patteggiamento in relazione al reato di cui all’art. 2 D. Lgs. 74/2000, anche in assenza del risarcimento del danno mediante estinzione del debito tributario, comprensivo di interessi e sanzioni).

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